Veronese in mostra agli Eremitani di Padova, c’e’ anche l’ascensione “perduta”

 

Ci sono tutti gli ingredienti di un giallo d’antan ambientato nel mondo delle opere d’arte e del traffico di beni culturali, ma soprattutto c’è l’eccezionale occasione di ricomporre per la prima volta, dopo quasi 400 anni, un’importantissima opera di Paolo Veronese: l’Ascensione della Chiesa di San Francesco a Padova, oggetto nei primi decenni del Seicento del clamoroso furto della parte inferiore raffigurante gli Apostoli – di cui si persero le tracce per secoli – reintegrata fin dal 1625 da Pietro Damini, il più autorevole interprete veronesiano del tempo.

La straordinaria possibilità di rivedere la parte originaria della pala del Veronese è data dalla mostra “Paolo Veronese e Padova. L’artista, la committenza e la sua fortuna” – in programma dal 7 settembre prossimo ai Musei Civici agli Eremitani a cura di Davide Banzato (nella foto mentre guarda il dipinto appena estratto dalla cassa), Giovanna Baldissin Molli e Elisabetta Gastaldi – che ricondurrà dalla Repubblica Ceca quella che solo negli anni Sessanta del Novecento Safarik riconobbe essere non un’opera autonoma (cm 170 x 178) ma la parte trafugata della famosa Ascensione di Paolo Veronese.
Da allora il pubblico, ma anche gli storici dell’arte concordi ormai con la tesi di Safarik, non hanno mai avuto modo di vedere insieme le due parti della famosa pala e di confrontare la versione originale dell’Ascensione del Veronese con quella reintegrata dal Damini.

Il prestito eccezionale, per il quale la Direzione dei Civici Musei di Padova ha lavorato con il supporto di Villaggio Globale International, grazie alla collaborazione con l’Arcivescovado di Olomouc proprietario dell’opera rende ora imperdibile la già importante mostra patavina, che riunisce nelle sale degli Eremitani la quasi totalità delle opere realizzate da Veronese a Padova e testimonianze dei grandi artisti che ne hanno seguito, reinterpretato, sviluppato l’eredità, fino agli inizi del Settecento (da Benedetto Caliari e i figli Carletto e Gabriele, a Zelotti, Varotari, Pozzoserrato, fino a Damini, Pellegrini, Lefèvre e Sebastiano Ricci).
L’interesse è molteplice, considerato il rilievo riconosciuto fin dai contemporanei alla pala del Veronese (realizzata per l’altare Capodivacca probabilmente nel 1575), che per originalità d’impostazione fu un modello per gli Heredes Pauli, ma anche per il mistero che ancora aleggia sul furto seicentesco.
È stato forse un colpo su commissione? Nessuno ha mai davvero capito a quel tempo chi fosse il mandante? e, ancora, nei diversi passaggi proprietari non ci fu mai la consapevolezza della provenienza illecita?

Certo è che il dipinto degli Apostoli – conservato nei decenni scorsi presso la Galleria Nazionale di Praga e ora alla Galleria dell’Arcivescovado nel Castello di Kromeriz – viene venduto nel 1673 al Vescovo Karl Lichtenstein a Olomouc da Franz von Imstenraed di Colonia, nella cui collezione risulta elencato per la prima volta nel 1667. Nell’inventario di Imstenraed, che aveva trasferito la sua raccolta a Vienna per proporla all’imperatore Leopoldo I, l’opera è indicata quale Assunzione; tuttavia un dipinto di “PAULO VERONESE Assentione de Nr Signore” compare già 12 anni prima (nel 1655) in un altro inventario: quello della collezione Arundel di Amsterdam, dalla quale Imstenraed aveva acquistato – come provano le ricevute di pagamento – svariate opere e forse, dunque, anche la tela veronesiana.
Siamo così arrivati a Thomas Howard conte di Arundel, di cui si ricordano l’interesse per la pittura veneziana e il legame con Padova: città dove soggiornò nel 1612 e nel 1613 (in una villa poco distante), dove i suoi due figli frequentarono l’Università fino al 1619 e dove morì il 24 settembre del 1646.
Arundel forma la sua collezione in quegli anni; in quel contesto egli può agevolmente acquistare dipinti come l’Ascensione del Veronese – o meglio la porzione con gli Apostoli – ma, d’altra parte, pare quanto meno strano non sapesse, come riconosce anche Safarik, del furto compiuto.

Nei medesimi anni del resto – più precisamente nel 1648 – anche il Ridolfi ricordava il turpe avvenimento: “…quella tela fu da rapace umano dal mezzo in giù tagliata, né vi restava che il Salvatore che incamminato per le vie dell’aria non lo raggiunse col ferro, e vi furono redipinti gli Apostoli da Pietro Damini da Castelfranco, e vollero quei Padri che vi registrasse questa iscrizione …”. L’iscrizione, posta in un cartiglio ben visibile nell’opera della Chiesa di San Francesco – affinché tutti sapessero e ricordassero – parla di “furto nefario” subito dalla pala di Veronese e di “felici penicillo” del Damini.
Ridolfi conosceva bene la collezione di Arundel, di cui cita alcuni dipinti nei suoi testi: perché allora non fa menzione di quella “Assentione” del Veronese che pure, come abbiamo già ricordato, compare nell’inventario della raccolta dell’olandese? Forse perché lo storico è conscio della provenienza illecita del frammento? Safarik ne era convinto.
L’Ascensione della Chiesa di San Francesco di Padova è stata oggetto, in occasione della mostra dedicata a Pietro Damini nel 1993, di un restauro e d’indagini radiografiche che hanno dimostrato l’assoluta conformità del supporto della parte superiore della pala – tela di lino con preprazione grigio-bruna – con il frammento degli Apostoli conservato a Olomouc, il quale risulta perfettamente accostabile anche per quell’impostazione spaziale che fu la vera novità dell’opera realizzata dal Veronese per i francescani a Padova.
“Il movimento ascensionale della figura di Cristo – ha scritto in merito Anna Maria Spiazzi- è un’ideazione di grande effetto scenografico, la cui lettura si comprende soltanto collegando la figura di Cristo in alto, con il gruppo di apostoli in basso”.
Il dipinto però era stato tagliato perfettamente sopra la testa degli apostoli, tanto da doversi supporre intenzionale il furto della zona inferiore poiché, separato dal Cristo, poteva costituire comunque un’opera in sé compiuta, “ideale galleria dei ritratti e dei modi del Veronese”.

Damini, da parte sua, nel completamento dell’”elaboratissimae tabulae pictoris eximii Pauli Veronensis” era stato chiamato a un’impresa ardua, con la necessità di adeguarsi allo stile del Maestro per continuità prospettica, accensione cromatica, cangiantismi del colore e pennellata rapida e incisiva.
Lo ha fatto, con maestria rifacendosi nei volti degli apostoli ai modi del Veronese, raccordandosi alla parte superiore della pala, completando le fronde dell’albero o il chiaroscuro delle nubi, impaginando il gruppo degli apostoli – su una tela di lino dalla tramatura più larga e con una preparazione rosso-bruna – in modo più semplice rispetto alla soluzione di Veronese, ma comunque convincente.
Il confronto diretto ora potrà darci ulteriori conferme e sarà emozionante – una sorta di risarcimento con la Storia – rivedere l’invenzione veronesiana nel suo insieme, come Safarik avrebbe sperato.
La mostra ai Musei Civici agli Eremitani resterà aperta fino all’11 gennaio 2015, promossa dal Comune di Padova, Assessorato alla Cultura-Musei Civici e Biblioteche di Padova con il Mibact-Soprintendenza per i Beni storici, artistici ed etnoantropologici per le Province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso, il Ministero dell’Interno-Fondo Edifici di Culto e la Regione del Veneto, la collaborazione della
Fondazione Antonveneta, il fondamentale sostegno di Fischer Italia e di Cassa di Risparmio del Veneto, Gruppo ICAT e SKIRA capofila ATI.