Confrontarsi con l’esperienza di chi studia ad alto livello il mondo del lavoro è un notevole aiuto per chi porta lavoro in carcere. Per questo motivo è stata importante venerdì 16 ottobre la visita alle lavorazioni carcerarie della casa di reclusione Due Palazzi del professor Michele Tiraboschi, tra i maggiori giuslavoristi del nostro Paese, con 25 traricercatori, dottorandi e studenti della facoltà di Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Un incontro molto sentito da entrambe le parti, se è vero che sui social media (soprattutto Twitter, Tiraboschi è un nome che conta nel mondo dei 140 caratteri, e i suoi studenti hanno appreso dal maestro) l’atmosfera era già elettrica da qualche giorno.
Oltre che docente ed esperto – e in questa veste interveniva nella casa di reclusione – Tiraboschi è direttore del Centro studi internazionali e comparati Marco Biagi dell’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore del comitato scientifico di Adapt, l’associazione senza fini di lucro, fondata da Biagi stesso nel 2000 per promuovere, in una ottica internazionale e comparata, studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro. Il giuslavorista però è anche membro del Tavolo numero 8 (formazione e lavoro) degli Stati generali del carcere istituiti dal ministro Andrea Orlando. Così per la sua “prima volta” nella casa di reclusione di Padova, erano presenti su invito di Giotto anche rappresentanti delle più importanti cooperative sociali che portano lavoro in vari istituti penitenziari, da Ragusa a Como, da Perugia, a Rebibbia (Roma), e poi a Venezia, Bollate (MI), Torino, Opera (Milano) e Monza. Era presente anche il direttore di Veneto Lavoro Tiziano Barone.
La giornata è cominciata con la visita alle lavorazioni in carcere, dalla pasticceria al call center, dalla costruzione di biciclette all’assemblaggio delle business key usb, in un dialogo continuo tra i presenti e con i detenuti lavoratori responsabili dei vari settori. Al termine della mattinata, al piano ammezzato da poco trasformato in call center, l’incontro con gli studenti e i rappresentanti delle cooperative, al qualche hanno partecipato anche vari detenuti lavoratori.
«Ci sono molti modi di parlare di lavoro in carcere», ha spiegato Boscoletto, «sulla carta sono circa 14mila su 52mila i detenuti che lavorano, ma se andiamo a vedere i circa 11 mila che compiono i cosiddetti lavori domestici (scopino, spesino, portavitto…) corrispondono al lavoro annuo di sole duemila persone. In questo modo è molto difficile che una persona possa fare l’esperienza di riacquistare la propria dignità: troppo sporadica l’attività lavorativa, mal pagata (fuorilegge dal 1993) e per nulla qualificante». Frasi a cui hanno fatto eco poco dopo anche quelle di un detenuto che ha raccontato la propria esperienza lavorativa in carcere: «Ho lavorato per quattro anni nella cucina di un altro istituto pagato con le cosiddette mercedi. Quando poi sono arrivato qui a Padova e ho cominciato a fare lo stesso mestiere con la cooperativa, solo allora mi sono reso conto che ero all’anno zero. Non sapevo fare praticamente nulla».
La situazione dei vari istituti di pena italiana è stata presentata dagli esponenti delle cooperative sociali, poi è stata la volta dei detenuti, ascoltati con grandissimo interesse dai ragazzi dell’università. «Essere trattati da persone, chiamati per nome e non essere dei semplici numeri di matricola ci fa risentire uomini». «Lavorare secondo regole certe apre nuove relazioni con l’esterno, con le persone che vivono fuori», ha detto uno di loro, «insegna a rispettarsi, a capire il proprio ruolo, a vivere in modo corretto le relazioni con i compagni e i responsabili del proprio settore. Avere un regolare stipendio poi permette di mantenere la famiglia e non doversi più umiliare a chiedere un aiuto economico ai propri cari oltre a slegarsi da situazioni che ti tengono ancorato al passato». «Io sono stato 25 anni in carcere», ha aggiunto un operatore del call center, «sono arrivato qui che non sapevo cos’è era un computer e ora seguo la formazione dei nuovi addetti. E poi da quando lavoro sono cambiati anche i pensieri e i discorsi: quando torni in cella parli di com’è andata la giornata, delle difficoltà che hai incontrato, dei clienti con cui hai avuto a che fare. Prima il tema era sempre lo stesso: i processi, i diritti, i reati, gli avvocati, i permessi… non si riusciva ad uscirne». «E’ solo se siamo trattati con legalità che impariamo il rispetto delle regole».
Al termine, la parola è andata a Tiraboschi. «Anzitutto sono molto grato dell’esperienza fatta oggi, penso che sia stato un grande arricchimento per i miei studenti». Un pensiero ampliato su Facebook nei giorni successivi. «Cosa è il lavoro? Quale è il suo valore? Quali regole lo governano? È tutto scritto molto bene nei nostri libri, ma fino a quando gli studenti non incontrano esperienze reali sono solo parole». Quanto alle cooperative sociali il docente le ha invitate a sintetizzare in un breve documento le difficoltà ma soprattutto le proposte che emergono dal mondo della cooperazione: «Il vostro è un contributo prezioso, sono certo che darete un apporto sostanziale al dibattito in corso agli Stati generali».
La giornata si è conclusa, e non poteva essere diversamente, a suon di tweet. «Il lavoro non è solo un’attività economica», ha cinguettato Ilaria, «incontrare i #detenuti #lavoratori ha #(ri)educato anche noi studenti!» E Isabella: «Bellissima esperienza nel carcere di Padova… abbiamo capito la vera importanza del lavoro».