Spero di non essere passibile di denuncia se dico che dobbiamo tornare ad abbracciarci. Fisicamente, perché la fisicità ha un suo valore intrinseco, ma nel frattempo direi che può andar bene anche un abbraccio virtuale.
Perchè nel gesto di abbracciarsi o anche solo nell’evocare il calore di un abbraccio c’è molto di più che in una rituale, quasi automatica (ma oggi peraltro sconsigliatissima) stretta di mano. Di sicuro, avvisi sanitari a parte, avremmo tutti un gran bisogno di abbracci. Perché gli abbracci sono parte della nostra cultura ma anche perché (ma direi, soprattutto perché) oggi come non mai abbiamo la necessità di sentire la vicinanza e la condivisione dei nostri simili.
Purtroppo, dopo tre mesi di paure, di chiusure, di canti dai balconi e di bandiere fatte garrire al vento, le vecchie abitudini delle contrapposizioni, degli scontri non solo verbali, sono tornati prepotentemente alla ribalta.
In misura drammatica negli Stati Uniti e ad Hong Kong, ma anche da noi il virus della divisione precostituita sta soppiantando, nelle cronache e nei dibattiti, il virus vero, quel Covid-19 che rischia di lasciare strascichi sui corpi ma anche nelle anime delle persone.
La crisi, gravissima, che ci ha investito, non ha prodotto quell’unità d’intenti che qualcuno ipotizzava. Semmai ha rimarcato ancora di più le divisioni: guelfi e ghibellini sono ancora ben presenti nel nostro panorama politico e sociale anche se oggi hanno preso nomi diversi: si chiamano virologi contro politici (e virologi contro infettologi e via di specializzazione medica in specializzazione medica), si chiamano garantiti contro non garantiti e hanno persino “infettato” l’Europa dove i Paesi “frugali” accusano gli altri di essere poco accorti nelle spese solo perchè hanno dovuto fare i conti con un’emergenza mai registrata dal dopoguerra ad oggi.
Si dirà: ma cosa c’entra l’abbraccio? C’entra. Perché ogni volta che un capopopolo, di qualsiasi colore sia la sua casacca, preferisce all’abbraccio l’invettiva, la lacerazione, ecco che le speranze di una ripresa, soprattutto economica, si affievoliscono.
Dall’osservatorio della Camera di Commercio (a proposito: è usuale che il presidente Santocono si commiati proprio con “un abbraccio e a presto”) assistiamo, ogni giorno, ad un lento ma inesorabile stillicidio di chiusure, soprattutto ma non solo, di piccoli esercizi. Alla scomparsa di tanti, troppi, nostri anziani sta facendo da corollario anche la morte di tante attività gestite da “over” 75 che, magari senza un gran valore economico, ma con un valore sociale inestimabile, contribuivano a tenere vive le nostre realtà locali.
Siamo sicuri dunque che serva lo scontro per rimettere in sesto il Paese? Siamo sicuri che sia utile che ognuno mantenga le proprie posizioni ideologiche, frutto di valutazioni “pre-Covid”, alimentando lo scontro in vista di ipotetici dividendi elettorali o economici? Io non credo.
Credo invece che serva unità d’intenti. Allargare i plateatici in accordo con la Sovrintendenza, quando questa non aveva mai fatto mistero della sua contrarietà, è un esempio di situazione modificata in positivo. Purtroppo tante restano invece le rigidità di un sistema (si pensi solo alla scuola, ingessata e priva di una qualsiasi visione strategica) che a parole vuole distruggere la burocrazia ma nei fatti ne alimenta il potere. Serve richiamare le 90mila parole dell’ultimo decreto e le decine di migliaia di emendamenti proposti, il più delle volte, solo per “assaltare la diligenza”? Non credo nemmeno a questo.
Ecco perchè, da inguaribile romantico, mi appello alla “cultura dell’abbraccio”. Perché nell’abbraccio, quello vero, quello non da Giuda Iscariota, c’è, lo ripeto, la condivisione. E mai come oggi “condividere” è il verbo che potrà consentirci di superare le tremende difficoltà che già adesso stiamo affrontando ma che non saranno meno accentuate quando arriverà l’autunno.
Franco Pasqualetti
Vicepresidente della Camera di Commercio di Padova