Questa mattina mi è stato chiesto di scrivere una riflessione sulle “stragi del sabato sera” anche in seguito all’intervento di ieri al fianco degli agenti della Polizia Municipale del Comune, dopo l’incidente di corso Australia.
Ho subito pensato di non voler scrivere il solito articolo con elenco di cosa si dovrebbe e non dovrebbe fare, preferisco raccontare cosa ho visto e vissuto io, ed i miei colleghi dell’associazione (Psicologi per i Popoli, associazione che si occupa di Psicologia dell’Emergenza a livello nazionale e regionale, ndr.) o i soccorritori che intervengono in questi casi.
La prima cosa che posso dire è che non ci si abitua mai a questo tipo di intervento, ed anche i soccorritori più esperti, pur portando a termine in modo perfetto la tecnica dell’intervento, si portano a casa una cicatrice, l’ennesima che segna la nostra attività lavorativa.
Cosa sono queste cicatrici? Sono i segni dei pensieri e delle emozioni che ci passano per la testa prima e dopo qualsiasi intervento in caso di incidenti mortali. Sono il pensiero di un’altra vita spezzata ancora giovane, ed in modo così stupido; il pensiero della famiglia che di lì a poco incontreremo e del dolore che inevitabilmente condivideremo; le lacrime che vedremo scorrere sul volto di un mamma o di un papà; le lacrime spesso ricacciate indietro negli occhi dei fratelli, soprattutto se più piccoli.
E’ difficile stare accanto alle famiglie in questi frangenti, condividere emozioni e dolore, ricordi e lacrime; in poche ore si concentrano sentimenti, parole e sensi di colpa che magari non sono mai stati espressi in anni.
Ho ben chiare nella mente la parole che una mamma mi ha detto quest’estate, dopo il secondo incidente del figlio nell’arco di sei mesi, quello che lo ha portato alla morte a soli 20 anni. “Perchè non gli ho buttato la moto dopo il primo incidente? Perchè l’ho fatto uscire, perchè non l’ho fermato?” Cosa si può rispondere ad una mamma che fa queste domande, che a 20 anni si pensa di essere invincibili o che si pensa che gli incidenti possano accadere solo agli altri, che si ha talmente fame di vivere e di divertirsi da dimenticare la sicurezza e l’attenzione per sé e per gli altri.
La risposta alle domande di questa mamma è arrivata dalle parole della sua figlia più piccola di quattordici anni, che mi ha pregata di raccontare la storia del fratello durante i miei interventi di formazione con i soccorritori e con i ragazzi e che lei avrebbe fatto la stessa cosa con i suoi amici ed a scuola, facendo sì che la vicenda del fratello fosse di esempio ed altri non incorressero nello stesso errore.
Sono certa che il condividere le esperienze sia la forma più efficace di prevenzione, il raccontare ai ragazzi come si svolgono esattamente i soccorsi in casi di incidenti così gravi e come sia complicato rapportarsi con le famiglie segnate dal lutto e dal dolore sia uno dei pochi modi per sviluppare in loro quella forma di autoprotezione che può salvare vite.
Può sembrare duro mettere i ragazzi di fronte a forme a volte anche forti di immagini o racconti o riferire loro il dolore immenso di genitori che hanno perso i loro figli ma è un modo per costringerli a riflettere sul fatto che quelle immagini, quei racconti e quei genitori potrebbero essere i loro un giorno.
In uno dei tanti interventi di prevenzione che ho fatto negli anni ho incontrato un ragazzo che ha compreso la paura e la preoccupazione dei propri genitori solo ascoltando il racconto di un papà che aveva perso la figlia in un incidente stradale. Prima delle parole di questo papà non aveva mai considerato l’altra parte dei suoi sabati sera/notte, per lui esisteva solo il suo divertimento ed il racconto delle serate ai limiti, sue e dei suoi amici. Non aveva mai pensato alla sua mamma sulla poltrona al suo rientro alle sei del mattino e nemmeno al perchè fosse seduta lì sveglia con il telefono e con i due cellulari di famiglia vicini. Non si era nemmeno mai chiesto perchè qualche mattina che era rientrato più tardi del solito avesse non solo trovato la mamma sulla poltrona ma la macchina fuori dal garage ed i vestiti a portata di mano. Aveva sempre letto questi comportamenti della sua mamma come un eccessivo controllo, non aveva mai notato le occhiaie e non aveva mai ascoltato il sollievo nella voce, al suo saluto al rientro. Dopo quell’incontro, dopo le parole di quel padre, tanti comportamenti che gli erano sembrati una “rottura” gli sono apparsi per quello che erano preoccupazione, amore ed attenzione. L’ho ritrovato qualche anno dopo e mi ha raccontato di non avere smesso di vivere il sabato sera ma di avere iniziato a viverlo responsabilmente perchè c’è chi si preoccupa per lui e lo aspetta a casa. Questa per me è la migliore delle prevenzioni.
Dott.ssa Raffaella Buzzi
Psicologo, psicoterapeuta
Presidente
Associazione Psicologi per i Popoli – Veneto