Dopo il bagno di folla del Pala Geox Bersani ha scelto di puntare sul sociale prima di lasciare Padova alla volta di Tireste. Il candidato premier del centrosinistra ha visitato la comunità dei disabili dell’Anffass e i carcerati del Due Palazzi. “Una visita in contropelo” l’ha definita lo stesso Bersani, facendo forse il verso a sè stesso. Una visita dalle molte letture: chi vuole vedere il bicchiere mezzo pieno può ragionare sulla carica umana, che appare autentica, di un politico che si dedica a temi scomodi come l’apertura verso il lavoro in carcere, in una terra dove forse politicamente è più facile agitare i forconi in parlamento e pascolare i maiali sui terreni dove devono sorgere le moschee. Chi ha una visione più scettica intuirà nelle due tappe della mattina una apertura di credito politico verso due bacini di voti molto compatti: quello del privato sociale in generale e quello più specifico che gravita nell’orbita della Compagnia delle opere. A fare da guida a Bersani in carcere ci ha pensato Nicola Boscoletto che ha dato uno scenario del mondo carcerario visto con le lenti del lavoro, quello su cui secondo la Costituzione è fondata la nostra Repubblica.
Sono i detenuti lavoratori – scrive il consorzio Rebus nel comunicato che riportiamo integralmente – Non gli 11mila delle statistiche, quelli a cui danno una scopa in mano o un carrello con le vivande da spingere per tre o quattro ore alla settimana, quando va bene. Sono quelli che hanno un lavoro vero, uno stipendio, le trattenute. Quelli che possono dire, come i fratelli pasticceri Gianni e Biagio: «Prima chiedere denaro alla famiglia era una continua umiliazione, adesso siamo noi che contribuiamo a sostenerla». Quelli come Bledar Giovanni, che tutti i giorni si ricorda delle sue vittime e per espiare, con i soldi dello stipendio, ha adottato a distanza un bambino africano.
Questi sono i lavoratori sui generis che l’onorevole Pierluigi Bersani incontra nella prima parte della mattinata di martedì 29 gennaio nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Sono gli operatori del call center, gli addetti alla costruzione delle biciclette e delle valige, gli operai cinesi che assemblano con velocità e precisione imbattibili le pen drive per Infocert, i cuochi specializzati e formati a tutte le possibili norme sulla sicurezza e l’igiene, oltre che i pasticceri degli inimitabili panettoni. Sono quelli che sanno già che, se un giorno usciranno dal carcere, una professionalità da spendere ce l’avranno bella pronta in tasca. Quelli, infine – spiega Boscoletto a Bersani – che una volta usciti tornano a delinquere nella misura dell’1 per cento, mentre i loro più sfortunati colleghi che non hanno avuto esperienze di lavoro dietro le sbarre sono destinati (la percentuale autorizza ad usare questo verbo) al crimine nella misura del 90 per cento. Terminato il giro delle lavorazioni, nell’auditorium del carcere si presenta un’assemblea singolare al candidato premier. Prendono la parola i rappresentanti di tutte le componenti che hanno a che fare con il mondo penitenziario, dal direttore della casa di reclusione padovana Salvatore Pirruccio ai rappresentanti del volontariato, passando per gli agenti di polizia penitenziaria e i dirigenti della cooperazione sociale. E ciò che colpisce è che, con qualche minimo spostamento di accenti, su diagnosi, prognosi e terapia per i mali del carcere tutti concordano praticamente su tutto. Torna come una litania l’invocazione delle misure alternative, la via che permetterebbe di dare un po’ di ossigeno a tante carceri sovraffolate. Quella di Padova, giusto per non andare tanto lontano, con le sue 900 presenze ospita il doppio dei detenuti che dovrebbe.
«Il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio di un sistema di pene che prevede molte altre misure», spiega il responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando. È quella che il magistrato Giovanni Maria Pavarin con una sottigliezza definisce “esecuzione penale effettiva”, che racchiude un ventaglio di possibilità ben più ampio della semplice “pena effettiva”. Anche la rappresentante degli agenti, Tiziana Mascolo, suggerisce di rimpatriare tanti stranieri detenuti e di trovare soluzioni diverse per chi entra in carcere per uso e spaccio di droga, prima che la galera diventi una scuola di alta specializzazione in crimine. Sulla cooperazione sociale («una della parti migliori della nostra società») si concentra il leader di Legacoop sociale Veneto Loris Cercato, chiedendo ascolto e credito a un leader politico, come Cervato stesso sottolinea, che da questo mondo proviene. È infine Boscoletto, dopo aver letto i calorosi messaggi del componente del Csm Giovanna Di Rosa e dell’ispettore generale dei cappellani deelle carceri italiane don Virgilio Balducchi, a presentare quella che lui stesso definisce la lista della spesa. Poca poesia nelle cifre dell’imprenditore veneto. Ma sono cifre che chiariscono il quadro da sole. Su 66mila detenuti, quelli che lavorano non per modo di dire sono 2200, il 3,5 per cento. «Ogni detenuto», e qui Boscoletto elenca minuziosamente ogni voce di spesa, «costa alla collettività 250 euro al giorno, ovvero poco meno di 100mila all’anno. Ogni milione di euro investito nel lavoro in carcere ne fa risparmiare nove, dati alla mano». E quei 27 milioni scippati come grazioso regalo natalizio dalla Legge di stabilità al mondo del carcere e solo parzialmente restituiti (16 ne sono rimasti) stanno a dimostrare tutta la miopia di chi non vede qual è la via maestra per affrontare il tema-carcere oggi, ovvero il lavoro.
Bersani ringrazia, abbozza appena un cenno di polemica con chi sulla giustizia «in questi anni ha avuto tutt’altre e singolari priorità», e stigmatizza la «cultura populista», che non accetta di essere nel torto neanche di fronte all’evidenza delle cifre snocciolate da Boscoletto. Da dove ripartire, allora? «Da un Paese capace di stima di sé», è la risposta, riprendendo un leitmotiv della sua campagna elettorale. Il che, declinato nel contesto penitenziario significa «non puntare su fumisterie, ma su cose che già esistono». Ad esempio riprendendo le importanti e circostanziate indicazioni che un recente documento del Csm elenca in tema di misure alternative alla detenzione. Poi, mettendosi senza tentennamenti sulla strada della depenalizzazione di reati minori. E non avendo nessun timore di fronte a chi pensa che dare lavoro ai carcerati significhi togliere il pane di bocca ai giovani e a chi fatica a trovarne un’occupazione. «Ragionamento ideologico», lo bolla il segretario democratico. «Se un panettone molto buono trova chi lo compra in nuovi mercati, ai Caraibi per dire, il mercato del lavoro complessivamente si espande». Anzi: è importante «inserire elementi di qualità nel lavoro carcerario», con evidente riferimento ai capannoni appena visitati. «Sono percorsi che devono trovare percorsi normativi. Ad esempio», ed ecco la risposta a Cervato, «valorizzando le cooperative sociali». Non amo le promesse, dice di sé Bersani. Ma una si sente di farla. «Se toccherà a me, la sala verde di palazzo Chigi dove si tengono le concertazioni ospiterà molti protagonisti del privato sociale. Le cooperative anzitutto». Le parole sono impegnative; Boscoletto, mentre consegna all’ospite una bicicletta e una valigia prodotte al Due Palazzi, si augura che si traducano quanto prima in provvedimenti. Anche perché «neanche noi del carcere», dice un detenuto, guadagnandosi il premio per la migliore battura della giornata, «siamo qui per smacchiare i giaguari».