Seduti per terra, sdraiati i più sfatti e quelli ancora più stupidi caricati su una barella e portati in ambulanza in ospedale. Oltre la quinta scenica della “festa” raccontata dai giornali rimane questo: un cumulo di spazzatura fortunatamente solo sull’asfalto dell’anello esterno del Prato della Valle e un vuoto che angoscia pensando che l’unico diritto rivendicato da una intera generazione è quello alla sbornia.
Il botellon è anche questo a ben guardare: una ostentazione di imbecillità. Toglieteci tutto ma non il diritto ad essere babbei, si potrebbe dire mutuando uno slogan pubblicitario. Ieri fino a tarda notte sono stato in Prato della Valle, per cercare di capire ancora prima che per raccontare. E quello che ho capito è che quelli del botellon sono una minoranza di sfigati, come lo erano prima di loro quelli che andavano in giro ad occupare le case o ancora prima a fare gli scontri in piazza contro la polizia. Diciamo che sono talmente sfigati da non avere nemmeno una ideologia dietro cui nascondersi. Che siano una minoranza lo si capisce anche guardando i numeri al di là delle suggestioni: tremila abbondanti. In una città con 60mila iscritti all’università e un hinterland di 400mila persone, praticamente una percentuale da prefisso telefonico dei teenager allargati anche alla soglia dei 30enni. La maggioranza era a casa a studiare o con la moglie o in giro con la fidanzata. E non gli veniva in mente di andare in Prato a suonare bonghi e sfondarsi di alcool fino a crollare a terra. Vicino ai rifiuti, l’unica produzione che un gruppo di destinati al fallimento post consumista è capace di lasciare come unica traccia di sè
Alberto Gottardo