Saranno anche passati 34 anni e mezzo da quell’11 luglio al Santiago Bernabeu e da quei 7 secondi di urlo liberatorio immortalato in 175 fotogrammi. Eppure quando passa Marco Tardelli, l’onda emotiva è ancora palpabile.Giovedì 24 novembre al suo ingresso nella casa di reclusione Due Palazzi di Padovaè stato subito circondato dai detenuti, ma anche dagli stessi agenti di polizia penitenziaria, per una foto insieme, un autografo su palloni e magliette, uno scambio di battute.
Lui, Marco, in carcere ci è entrato con la figlia Sara per presentare la sua autobiografia,“Tutto o niente. La mia storia”, pubblicato da Mondadori a firma congiunta sua e di Sara, giornalista della scuderia di Giovanni Minoli. Ma il libro, che pure è stato distribuito e firmato con dediche personalizzate, è rimasto sullo sfondo.
L’ex centrocampista, oggi commentatore sportivo, è arrivato intorno alle 13.45, accompagnato da Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, si è recato nei locali della pasticceria («di solito davano a me le pagelle, oggi le do io a voi pasticceri, vi meritate 11», il suo commento), del call center e delle altre lavorazioni carcerarie. Poi si è seduto a pranzo, assieme a una ventina di detenuti lavoratori della Giotto e alla presenza del direttore della struttura Ottavio Casarano.
Il pranzo è stato il momento più intimo e per certi versi toccante della visita. I detenuti si sono presentati uno ad uno raccontando in breve la loro storia. Anzitutto si è scoperto che il Tardelli Fans Club carcerario è molto nutrito. A partire da Roberto, italosvizzero che lavora al call center. «So tutto di te», gli ha detto, «con la Juventus hai fatto 259 presenze e 34 gol. E quando hai concluso la carriera al San Gallo io che ero tifoso del Lucerna facevo regolarmente 80 chilometri per seguire le tue partite». Mac’è spazio anche per interventi più sofferti: «Mi piacerebbe che le mie figlie mi guardassero negli occhi con l’orgoglio che vedo negli occhi di Sara», dice un altro. «Lo farà», rassicura Marco. «Non bisogna smettere mai di sperare e di andare avanti fino in fondo, perché ci è stata data questa possibilità, è importante avere la forza di provarci, anche se a volte ci riesci, a volte no».
Anche Sara interviene: «Le situazioni più negative, quando riesci a dargli il peso giusto, possono diventare importanti, perché ti accorgi che devi avere pazienza, le cose col tempo si dipanano, così diventano più chiare dell’inizio e riesci a trovare dei punti d’incontro: in realtàriesci a trovare grande ricchezza e alla fine essere felice». Qualcuno sdrammatizza. «Tutti noi qui dentro abbiamo qualche grave errore da farci perdonare», dice un altro lavoratore della Giotto. «E d’altra parte anche tu Marco ne hai fatto uno, sei passato all’Inter». Risata generale.
Tardelli poi passa al vicino capannone, riconvertito in sala incontri addobbata con bandiere di tutto il mondo. In prima fila la Polisportiva Pallalpiede, squadra di calcio galeotta che milita nel campionato di Terza Categoria. E che naturalmente gioca solo partite in casa. È il momento di giornalisti e telecamere, che improvvisano una conferenza stampa in mezzo al pubblico, poi Marco e Sara salgono al tavolo dei relatori dove rispondono alle domande di Nicola Boscoletto.
È la storia di una vita quella che emerge poco a poco, conun percorso segnato non solo da successi ma anche da momenti di difficoltà economica, legami interrotti e poi ripresi. Tra questi, fortissimo il legame con la figlia. È lei stessa a dirlo con grande semplicità: «La mia coppa del mondo è stato raccontare la storia di mio padre, non è facile essere sempre indicata come “figlia di”. Oggi ho una mia identità che è arrivata dal lavoro, da tanto impegno e dall’aver avuto la fortuna di aver incontrato uno come Minoli, che ha creduto in me sostenendo il mio talento e la mia speranza, come ha fatto con tanti altri».
Anche i primi anni nella famiglia di origine di Marco sono stati segnati dalla povertà. «Che però», osserva, «una volta veniva vissuta in modo diverso. Oggi i poveri vivono in solitudine, ioposso dire di aver vissuto un’infanzia felice, nonostante le difficoltà, segnata da rapporti significativi. Per me ad esempio è stato importante l’ambiente dell’oratorio. «Certo emergere era difficile. Ricordo che un giorno dissi a mia madre “Se non faccio i soldi con il calcio faccio una rapina”. Lei però non la prese per nulla bene, mi rispose; “Se finisci in carcere, non sperare che venga mai a trovarti”».
Il tempo passa in fretta, le domande anche calcistiche (c’è chi gli chiede un commento a una sua doppietta al Real Madrid) incalzano. Poi un pacifico assedio di richieste di autografi, a cui Marco risponde con disponibilità. «Fatemi sapere cosa posso fare per voi, mi piacerebbe coinvolgere anche i vecchi compagni», dice con un pizzico di commozione. L’incontro si conclude con una sfida ai rigori tra Tardelli e l’allenatore della Polisportiva Pallalpiede, vinta dal padrone di casa.
«Oggi ho provato molte emozioni», è il commento finale, «le emozioni che ho provato nell’82 sono molto inferiori a quelle che ho provato oggi, perché ho visto persone che mi hanno coinvolto raccontando aspetti inaspettati della loro vita. Ero già stato in un carcere a Regina Caeli, ma un atteggiamento come quello di questi lavoratori mi ha davvero sorpreso. Non mi viene neanche da chiamarli detenuti».
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