Va in scena martedì 18 giugno alle ore 21 allo Sherwood Festival di Padova “Lost in Veneto”, il nuovo spettacolo scritto da Massimo Carlotto e Loris Contarini e prodotto da Amistad Associazione culturale. Sul palco dello spazio “Open Stage”, presso il park nord dello stadio Euganeo di Padova (viale Nereo Rocco), lo stesso Contarini, curatore della drammaturgia e della regia, insieme ai musicisti Rachele Colombo (percussioni e voce) e Paolo Valentini (chitarre).
Il tormento interiore di un veneto “spaesato”: questo è lo spunto da cui prende la sua genesi “Lost in Veneto”. E lo spaesamento è la condizione autentica non solo dell’attore, ma anche dei musicisti presenti con lui in scena.
Lo spettacolo, (che ha partecipato al festival “Sguardi 2012”, vetrina del teatro veneto) è il tentativo di capire il presente di un territorio che diventa così simbolo, metafora: una “terra dell’anima”, per citare il titolo di un famoso romanzo di Carlotto. Tutto ha inizio nelle parole dell’Amleto di Shakespeare, ma più precisamente nella loro poetica traduzione in vicentino di Luigi Meneghello. Il sentimento di spaesamento, di disorientamento del giovane Principe “trapiantato” in lingua veneta ri-suona – ed è proprio il caso di dirlo – in modo del tutto nuovo nel cuore e nelle viscere del protagonista, tanto da fargli sentire la propria condizione e quella del danese vicine, molto simili. Ed è Amleto stesso a suggerirgli lo strumento per una possibile via di “indagine” e di soluzione: il teatro. Così, attraverso la metafora della scena, chiamando sul palcoscenico via via personaggi e storie che ci parlano del nostro presente in Veneto, sono raccontati il tentativo e la fatica di ri-orientarsi, di ritrovare i punti cardinali della propria terra da parte del protagonista (cioè dell’attore stesso).
«È il tentativo di interrogarsi, attraverso il teatro, sul tema dello “spaesamento” di questo nostro tempo – spiegano gli artisti -, e dunque attraverso alcune storie del Veneto, che ne diventa così metafora -, sul senso delle radici, dell’appartenenza, dell’identità».
Tra le storie che si raccontano quella di un veneto di ieri, migrante per miseria, che ci evoca i migranti di oggi, arrivati in questa terra ora non più povera. E poi ci sono le storie del presente, di chi si sente fortemente ancorato al suo “qui e ora”, la figura di un “veneto-tipo” dotato di notevole pragmatismo, né leghista né non leghista…: di quel “centro” che lascia le mani libere per frequentare sia la moderazione che il cinismo estremista, in nome della modernità e dell’interpretazione “pratica” dell’attualità. E poi il racconto di una rivoluzione tentata, i cui “patrioti” goffamente perdono e – anche loro – si perdono.
Il senso di spaesamento del protagonista via via aumenta, i tentativi di orientarsi falliscono. Ma a soccorrerlo, come all’inizio, è Meneghello, e con lui le parole di un altro grande Maestro veneto: frammenti di poesie, parole sparse di Andrea Zanzotto.
Trova alla fine, il nostro naufrago terrestre, un appiglio per restare aggrappato alle sue, nuove, radici: identità, civiltà, lingua non sono e non possono essere punti cardinali se non hanno, a loro volta, radici profonde e forti in un luogo dove ricordare «che esiste il sublime». Un Luogo che «per risaltare gli antichi splendori e accogliere vie di beltà» non può chiedere se non alla poesia e a chi gli dà voce. E solo così può ritrovarsi. Quel luogo può essere, nuovamente, Veneto.