Sei pietre d’inciampo per ricordare altrettanti padovani perseguitati e deportati nei campi di sterminio sono state posate stamattina. Due davanti al Museo della Padova Ebraica, in via delle Piazze, in ricordo di Giuseppe e Italo Parenzo. Altre quattro in via Damiano Chiesa, 4, in ricordo di Rodolfo Ducci, Luisa Hoffman Ducci e dei figli Eva e Teo. Tutti padovani che avevano come unica colpa di essere di religione ebraica.
A ricordare la storia di queste persone è intervenuto, assieme ad un folto gruppo di studenti, molto opportunamente coinvolti nella cerimonia, il sindaco Sergio Giordani. Che ha letto un discorso molto ben scritto, che ha richiamato senza perifrasi ai tempi che stiamo vivendo oggi.
Ha ricordato, in un passaggio del discorso il sindaco, che in questi giorni a Palazzo Moroni c’è una mostra che racconta la storia dei carabinieri che ebbero un ruolo attivo nel contrastare la persecuzione degli ebrei. “Chissà se anche a loro, i carabinieri che dissero no alla barbarie, venivano chiamati i buonisti. E chissà se qualcuno dei bambini che morirono nei campi di concentramento aveva la pagella cucita nella tasca della giacca“. Parole pesanti quelle lette dal sindaco Giordani, a cui ha fatto eco il discorso asciutto del presidente della comunità ebraica padovana Gianni Parenzo, parente di due delle persone ricordate dalle pietre d’inciampo posate oggi.
“E’ scritto nel Talmud – ha ricordato Gianni Parenzo – che una persona muore solo quando nessuno ricorda più il suo nome. Liliana Segre ci raccontò come la privazione del nome, sostituito da un numero fu l’inizio dello sterminio, con la disumanizzazione di così tante persone. “Come numeri venivamo mandati al lavoro, come numeri ci veniva dato il cibo, come numeri venivamo mandati a morire” ha ricordato Liliana Segre – prosegue Gianni Parenzo – Quanto accaduto ci obbliga a riflettere e prestare attenzione a quanto serpeggia nel Paese a quanto si propaga dagli stadi ai social: c’è un clima di odio verso lo straniero che non ci può lasciare tranquilli”.
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