Nel tempo della peggior crisi economica dal dopoguerra, le aziende guidate da titolari di origine straniera aumentano e alcune, persino, raggiungono il successo. Un sogno americano, in un’Italia che ha sempre meno sogni. Dell’argomento si occupa il dossier «Partite IVA a colori», curato da Giulia Cananzi con la collaborazione di Nicoletta Masetto e Luisa Santinello, pubblicato sul numero di gennaio del «Messaggero di sant’Antonio», la rivista edita dai frati minori conventuali di Padova, che conta oltre 500 mila abbonati in tutta Italia.
Secondo gli ultimi dati DossierMigrantes/Cna queste aziende sono oggi più di 440 mila, e sono cresciute in un anno dell’8 per cento e, dal 2005, del 47,8 per cento, mentre le imprese autoctone nello stesso periodo sono calate del 9 per cento circa. «Queste aziende – conferma Fosco Corradini del Cna World, la sezione della confederazione che assiste le imprese immigrate – sono oggi una delle componenti più dinamiche della nostra economia». È l’altra faccia, forse la meno conosciuta dell’immigrazione nel nostro Paese, che oggi concorre insieme al contributo di tutti i lavoratori stranieri a produrre il 12 per cento della ricchezza nazionale.
Secondo il Cnel si tratta in maggioranza di piccole aziende con circa 3,7 dipendenti e di liberi professionisti; ancora poche le aziende più grandi e strutturate perché la nostra immigrazione è, rispetto ad altri Paesi, assai recente. Il fenomeno attraversa l’Europa ma è particolarmente radicato in Italia, proprio a causa delle caratteristiche del tessuto produttivo del nostro Paese, costituito in maggioranza da piccole e medie imprese: «Per molti immigrati – spiega Corradini – capire di poter diventare imprenditori di se stessi è stata una scoperta. L’Italia ha offerto un modello che loro hanno saputo cogliere, nonostante le difficoltà enormi ad aprire qui un’impresa».
A tracciare l’identikit dell’imprenditore straniero in Italia è Maurizio Ambrosini, direttore della rivista Mondi migranti e professore di sociologia delle migrazioni all’Università di Milano: «Non è affatto uno sprovveduto. È in genere sulla quarantina, è in Italia da diversi anni, è piuttosto istruito e non di rado proviene da famiglie della piccola borghesia commerciale; ha, insomma un capitale umano tale da entrare con facilità nella mentalità imprenditoriale autoctona e di affrontare le strettoie burocratiche e finanziarie di chi apre partita IVA».
Un fenomeno nuovo, in pieno movimento, che ancora solleva più dubbi che speranze. Questi imprenditori occupano spazio agli italiani? Vincono grazie a una scarsa aderenza alle regole? Come fanno a resistere alla crisi? Come s’inseriscono nel tessuto produttivo del nostro Paese? Sono davvero in grado di diventare una risorsa per l’Italia?
Il Dossier del «Messaggero di sant’Antonio» cerca di rispondere a questi e altri interrogativi, dando la parola anche agli imprenditori immigrati. Tra loro il siriano Radwan Khawatmi, che ha fondato la Hirux, leader degli elettromestici made in Italy per i Paesi arabi e il Nord Africa; Sandra Aparecida Gouveia, brasiliana, che ha saputo creare un centro estetico originale e all’avanguardia ad Ascoli Piceno; Xu Qui Lin, cinese di Toscana, titolare di Jupel, azienda di confezioni dal design italiano, che esporta in tutto il mondo.