Qualcuno forse si sarebbe aspettato recriminazioni, proteste, rabbia. Non che non ce ne fossero i motivi. Gestisci per undici anni un servizio pubblico, crei professionalità e coesione sociale. Avete presente le famose best pratices alla cui divulgazione l’Unione Europea destina un sacco di denari pubblici? Tutti i documenti ufficiali dicono che stai lavorando bene. Anzi, che quello che stai facendo va diffuso ovunque. E poi, sempre con tanti complimenti, ti danno il benservito.
Oggi però al “penultimo pranzo” nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova, offerto dai detenuti del Consorzio Giotto prima della chiusura del servizio, c’era una strana atmosfera. Delusione, un pizzico di amarezza. Però anzitutto tanti amici. Oltre 150 tra autorità, esponenti della società civile, imprenditori e giornalisti, invitati tra l’altro all’ultimo momento. Messaggi affettuosissimi. Amici cari come suor Lia delle cucine popolari, padre Enzo Poiana del Santo, il pasticciere Biasetto, il luminare dell’anestesiologia Giron (quest’ultimo con una punta di sarcasmo: «se dovessi dire davvero ciò che penso, verrei meno al mio stile abituale»). Ma anche personalità istituzionali come il presidente del Veneto Luca Zaia, che bolla la decisione del Ministero come «assurda, ingiusta, improvvida».
Oltre la delusione, la gratitudine. Lo ricorda il presidente del consorzio, Nicola Boscoletto: «In questi anni abbiamo capito di più chi siamo, abbiamo imparato a volerci bene, a fidarci del prossimo. Non è vero che non fidarsi è meglio». Si scusa se sarà lungo, Boscoletto, se i concetti non saranno chiarissimi. Cosa abbia in cuore però non è difficile da capire. «Abbiamo visto tante persone cambiare, genitori che piangevano dalla commozione di fronte alla nuova vita dei loro figli».
In queste parole «di cuore e non di pancia», non mancano cenni di storia recente. A partire dagli anni Settanta, con la gloriosa ditta Rizzato che costruiva le biciclette nel carcere di piazza Castello, all’avvio delle lavorazioni interne delle carceri, con retribuzioni pari ai due terzi del contratti ma aggiornamenti bloccati al 1993. Poi nel 2000 la benemerita legge Smuraglia/Manconi apre le porte del carcere a professionalità esterne. Fino alla brusca frenata di oggi. Che metterà a rischio metà delle dieci cooperative che gestiscono le cucine di altrettanti istituti. «Ringraziando Dio, noi non siamo tra queste. La pasticceria e le altre lavorazioni proseguiranno. Ma sarà dura, molto più dura».
E sarà dura soprattutto per i venti detenuti che domani verranno licenziati. La parola, mentre i piatti del menu vengono serviti agli ospiti, passa a loro. «Abbiamo conosciuto “civili” che ci hanno trattati come persone», dice Federico. «Grazie a loro abbiamo imparato un lavoro come si deve», aggiunge Biagio. Valentino, proveniente dalla Nigeria, osserva che «far sparire le cose belle è fin troppo facile». «È stata l’esperienza più bella della mia vita», confessa Bledar, albanese. E il suo connazionale Armand si chiede «cosa farò ora tutto il giorno in una cella di quattro metri per quattro?». C’è smarrimento. Ma anche riconoscenza, in tutti. La esprime un altro albanese, Elton, con la parola che è oggi risuonata più spesso, fiducia. «Grazie per la fiducia che avete avuto in me in questi anni». Anche gli amici lavoratori degli altri settori – call center, biciclette, valige, pasticceria – esprimono solidarietà e preoccupazione.
Una sconfitta? Quasi illogicamente, viene proiettato uno spezzone dell’Enrico V di Kenneth Branagh. Il re inglese arringa la folla. Sull’onda del testo shakespeariano si parla di gloria, di onore, di un’imminente battaglia in cui le forze del nemico sono tre, quattro, cinque volte superiori. Eppure le truppe inglesi batteranno clamorosamente i francesi. Subito un altro video, è la volta di papa Francesco. Parole pronunciate sottovoce, ma taglienti come un filo di spada. Parla dei poveri, tesoro della chiesa. Del lavoro che dà dignità all’uomo. E di speranza: «Non lasciatevi derubare la speranza», è l’incoraggiamento.
Mentre scorrono le immagini, il momento di maggiore intensità emotiva. I lavoratori delle cucine depongono le loro eleganti divise bianche da cuoco e vestono il camicione bruno delle lavorazioni cosiddette intramurarie. Domani ultimo giorno di servizio, ultima colazione, pranzo e cena. E poi? «Il servizio continuerà», assicura il direttore dell’istituto, Salvatore Pirruccio. «Purtroppo però così perdiamo un’esperienza vincente, che ha dato risultati encomiabili». «Sono attività che ho conosciuto da vicino in questi anni», interviene il prefetto Patrizia Impresa. «Meritano il rispetto non solo di tutti noi, ma anche di chi ci governa». Un augurio? «Che sia veramente il penultimo pranzo», non la fine di un’esperienza. La parola conclusiva del prefetto è speranza. «Me l’hanno insegnata loro. Vedendo la passione con cui queste persone lavorano, sentendoli raccontare i progetti per il futuro, mi sono sentita arricchita e piena di speranza. Una speranza che raramente noi che stiamo “fuori” abbiamo». E che dà frutti. Come ricorda Elio, il detenuto che parla a nome dei pasticceri. «Tra tante cattive notizie, ve ne do una buona. Oggi ho saputo che un nostro collega albanese, uscito dal carcere qualche mese fa, ha aperto una pasticceria nel suo Paese». Sono le best practices di via Due Palazzi. E speriamo bene per il futuro.