Poche righe, una fotonotizia sui giornali. Eppure la storia della morte di Arnaldo Trevisan andrebbe raccontata nella sua interezza. Perchè Arnaldo Trevisan, agente in prova della questura di Padova freddato da un rapinatore trent’anni fa, non fu l’unica vittima di una brutta pagina della polizia padovana, di cui Trevisan era un esponente appena affacciatosi al servizio in strada. A questo link il comunicato della questura.
Forse il sindaco di Padova Sergio Giordani manco se lo ricorda, ma a morire in quelle settimane ci furono due giovani di poco più di vent’anni. Il secondo si chiamava Francesco Badano, trovato morto, ufficialmente suicida, nelle celle del reparto-bunker dell’ospedale di Padova.
Riportiamo un articolo di Giorgio Cecchetti pubblicato da Repubblica:
“Nel pomeriggio era stato convocato Augenti, il quale poi racconterà che di fronte si era trovato un giovane pieno di lividi, con gli occhi parzialmente chiusi e gonfi, che non riusciva a reggersi in piedi da solo e che continuava a ripetere: Mi hanno sprangato! Mi hanno sprangato!. Con l’ avvocato c’ era anche un medico ed è proprio grazie alle sue insistenze che Badano verrà in seguito inviato in ospedale e ricoverato al reparto bunker, dove il mattino seguente sarà trovato impiccato al cardine della porta. Immediatamente quindi parenti ed avvocati avevano espresso pesanti dubbi sul comportamento non solo degli agenti che lo avevano arrestato, ma anche di coloro che in questura l’ avevano interrogato. C’ era addirittura chi metteva in discussione la dinamica del suicidio: Come è possibile che il giovane, sorvegliato da ben due poliziotti, si sia potuto impiccare? si era chiesto il padre del ragazzo, che aveva presentato una denuncia alla Procura“.
Ecco, io credo, signor sindaco, che sarebbe utile ricordare anche quella vittima dell’odio, morto a 26 anni dopo essere stato sprangato: si sarebbe impiccato al cardine di una porta poco più alta del suo metro e ottantatrè centimetri.
La vita di Francesco Badano è finita nel sangue, come quella di Arnaldo Trevisan, all’alba dei vent’anni. Forse ricordare con una targa che in quel luogo morì un ragazzo, potrebbe riparare una brutta pagina di quella Padova dove la polizia, scrive Fabrizio Ravelli su Repubblica nel 1988, ed in un successivo passaggio sempre Ravelli ricorda: “La verità sulle sue condizioni sta ora in una ventina di foto a colori, scattate all’ obitorio prima dell’ autopsia. Sono foto come quelle che anni fa documentarono le torture sul brigatista Cesare Di Lenardo, sempre qui a Padova. La verità è che bisognerebbe smetterla con questi sistemi. La verità è che polizia e carabinieri pestano regolarmente tutti gli arrestati, qui a Padova, anche i ladruncoli, accusa un magistrato. Ma la sua testimonianza è tanto esplicita quanto anonima“.
Ecco, sarebbe ora di seppellire, senza dimenticarla, quella brutta storia che è costata trent’anni di attesa ai familiari di Arnaldo Trevisan per vederlo ricordato come merita in stazione. E merita che sia ricordata l’altra vittima di quella violenza, che costò sofferenze ad una interà città. Dove personaggi ancora oggi potentissimi, hanno imperversato in una zona grigia anche successivamente, fatta di strane fughe di notizie dalla Procura, strani incidenti di moto in Strada Battaglia, strane sparizioni di droga a medicina legale, e strani suicidi di persone per bene. E’ stato tutto molto strano troppo spesso in questa città. E secondo me, signor sindaco, è anche strano che nessuno si sia ricordato ieri e oggi sui giornali, della morte di quell’altro ragazzo, morto con mezza faccia devastata dai colpi, e i palmi dei piedi massacrati dalle manganellate. Un po’ di giustizia, lui che con ogni probabilità partecipò a quella sanguinosa rapina, la meriterebbe. Anche perchè non risulta che per quella morte abbia mai pagato nessuno.
Alberto Gottardo